La Consulta, la partecipazione, la Nuova Regione
nostra intervista al Prof. Giovanni Lobrano
Mentre
in Consiglio Regionale va sempre più vivacizzandosi il dibattito sulla
Riforma dello statuto che deciderà, nel bene o nel male, il destino del Popolo Sardo; i veri destinatari della Riforma (i cittadini sardi) ne vengono tenuti totalmente all’oscuro.Ciò ha indotto i partiti di opposizione a presentare una proposta di iniziativa popolare che serva a garantire la obbligatorietà di un percorso decisionale previa consultazione dei cittadini. La questione è delicatissima poiché nei prossimi mesi sarà decisa la nuova forma di organizzazione della Regione sarda per i futuri decenni.
Potranno i Sardi permettersi ancora il lusso di disinteressarsi alla questione?
Si
tratta di un problema fondamentale: desiderano essere governati
attraverso un sistema istituzionale che li veda protagonisti e partecipi
delle decisioni sul loro futuro, oppure intendono affidare nelle mani di pochi signorotti della politica e della economia il destino dei loro figli?
Per comprendere che cosa stia succedendo e per farci un’idea da una voce esterna ai partiti politici, abbiamo interpellato il Prof. Giovanni Lobrano,
Preside della Facoltà di Giurisprudenza di Sassari nonché esperto
studioso in materia di Riforme Istituzionali su scala internazionale.
Al Prof. Lobrano
chiediamo di illustrarci molto sinteticamente lo stato del dibattito in
corso e di indicarci le possibili vie risolutrici che servano ad
offrire precise garanzie di continuità e di crescita della vita
democratica nella nostra regione.
Nel processo di riforma dello Statuto dell’Autonomia, il
governo regionale sardo appare aver dimenticato cosa è lo Statuto
dell’Autonomia.
Lo “Statuto speciale della Sardegna” (proprio in quanto Statuto e a differenza della Costituzione) è composto di due parti:
a) una parte ‘esterna’,
di ‘delimitazione’ fondamentale della autonomia e che consiste nella
divisione di materie e di compiti, di risorse e di poteri tra lo Stato
italiano e la Regione sarda;
b) una parte ‘interna’,
di ‘esercizio’ primo e altrettanto fondamentale di tale autonomia e che
consiste nella definizione della “forma di governo” della Regione. La
“Costituzione”, infatti, è stata concepita durante il Settecento nel
corso della Rivoluzione francese e della Indipendenza americana,
‘soltanto’ come “documento contenente la forma di governo” (così,
esemplarmente, A. Guzmán Brito) ovverosia: come documento che indica il
Sovrano e la sua forma di governo.
Le ragioni per le quali la ovvietà
della composizione binaria dello Statuto appare dimenticata sono varie e
vengono da lontano ma questa obliterazione ha avuto una accelerazione
decisiva in occasione del processo riformatore regionale sardo ultimo e
in corso. Mentre, all’origine della Repubblica Italiana, lo Statuto regionale
era interamente materia costituzionale e, quindi, interamente
competenza del legislatore nazionale (restando al legislatore regionale
il potere di proposta) con la riforma costituzionale del 2001, la sua
parte ‘interna’ è stata ‘de-costituzionalizzata’ e rimessa alla
competenza esclusiva del Legislatore regionale (con il solo limite della
necessità per la sua approvazione della maggioranza assoluta dei membri
del Consiglio regionale).
A questa novità ragionevole, che divide
la competenza e sdoppia l’iter formali di scrittura dello Statuto, è
stata fatta seguire una terminologia per cui è stata chiamata “Statuto”
soltanto la sua parte esterna, mentre la sua parte interna viene chiamata non più “Statuto” ma “Legge statutaria”.
Tale
terminologia è, invece, gravemente scorretta perché alimenta la idea
gravemente erronea, che lo Statuto sia esclusivamente ciò che in realtà
ne è soltanto una sua parte: la parte esterna, di divisione di materie e
poteri tra Stato e Regione. Ma lo scopo o quanto meno il risultato vero
di tale terminologia e della idea connessa consiste nel far perdere di
vista e letteralmente dimenticare la parte interna dello Statuto: la parte cioè di definizione della “forma di governo” regionale. E’, dunque, esigenza primaria non farci confondere dalla terminologia e ricordare, invece, che lo Statuto è un tutto unico:
composto di due parti tra loro non soltanto complementari (come ad
esempio nel corpo umano, la testa e un piede) ma anche entrambe
essenziali (come per restare nello stesso esempio le due metà del
cervello).Infatti, che ne faremmo noi cittadini Sardi della assegnazione
di molti poteri da parte dello Stato alla Regione se, però, questi
poteri si concentrano totalmente e assolutamente nelle mani e nella discrezionalità di un gruppetto di uomini o addirittura di un uomo solo?
Il padre della democrazia contemporanea, Jean-Jacques Rousseau, osservava con “meraviglia” la “stupidità del popolo inglese”, il quale, essendo perfettamente libero da poteri esterni, consegnava interamente la propria libertà nelle mani di un governo accentratore e “onnipotente” (William Blackstone) che ne faceva il proprio servo.
Ma
vi è di più: con un paradosso soltanto apparente, possiamo e dobbiamo
dire che la parte interna dello Statuto addirittura precede la sua parte
esterna: precisamente per la logica (purtroppo non ancora intesa o,
comunque, non ancora accettata) della autonomia.Tale ‘precedenza’ della
forma di governo regionale rispetto al rapporto Regione-Stato può essere
verificata facilmente sia sul piano sostanziale sia sul piano
procedurale.Sul piano sostanziale basta considerare che siamo o dovremmo
essere oramai passati, con l’autonomia appunto, dal vecchio ordine discendente (Stato, Regioni, Province, Comuni) al nuovo ordine ascendente dei meccanismi istituzionali (art. 114 Cost. riformata: Comuni, Province, Regioni, Stato).
Sul
piano procedurale, basta considerare che non può assolutamente essere
né credibile né efficace la mera ‘proposta/rivendicazione’di potere
democratico nella redazione della parte esterna dello Statuto, nei
confronti e contro l’accentramento statale, se non avremo dimostrato
previamente la possibilità oggettiva e le capacità e volontà soggettive
di realizzare tale democrazia laddove disponiamo del potere decisionale
pieno: nella redazione della parte interna dello Statuto, nei confronti e
contro l’accentramento regionale (il quale, notoriamente non è affatto ‘meno peggio’ di quello statale).
Quindi, che cosa dovrebbe fare il la Giunta regionale?
Se
lo Statuto è unico e se non vogliamo comportarci in maniera
schizofrenica, unico deve essere anche l’obiettivo che assegniamo a
tutto lo Statuto, l’obiettivo cioè da perseguirsi organicamente e
unitariamente con e da entrambe le sue parti.Tale obiettivo unico può
essere individuato sinteticamente ma perfettamente proprio nella formula
adottata dal legislatore regionale con la legge istitutiva della
Consulta: “Autonomia e sovranità del Popolo sardo”; ad
una condizione, però: che la formula sia ‘seria’ e coerente e che non si
tratti soltanto di una espressione puramente retorica.Per soddisfare
questa condizione, è necessario evocare la verità, forse scandalosa e scomoda ma certa e inevitabile (nonché fondamentale nella/della scienza giuridica repubblicana), che la
autonomia e la sovranità di ciascun popolo hanno come avversario,
competitore e/o antagonista precisamente l’apparato di governo di quello
stesso popolo.
Delle due l’una: o è sovrano chi governa e il popolo gli ubbidisce o è sovrano il popolo e chi governa gli ubbidisce. Tertium non datur.
Per
essere chiari fino in fondo diciamo subito che, nel ‘caso’ della
Sardegna, tale verità si applica tanto all’apparato di governo che sta a
Cagliari quanto a quelli insediati a Roma, a Bruxelles e/o altrove.
La
accettazione di questa verità (che ci riconduce ancora alla
essenzialità e alla priorità già menzionate della parte interna dello
Statuto di definizione, con la cosiddetta “legge statutaria”, della
forma di governo regionale) comporta due conseguenze positive di primo
piano:
a)- coniuga, secondo una grande e secolare
tradizione di pensiero e di prassi politiche/giuridiche, il diritto
della “autonomia/sovranità” di un Popolo alla esigenza del suo “buon
governo” (nesso, da più parti affermato, tra qualità della riforma
statutaria e ‘sviluppo socioeconomico’!);
b)- smonta
sul nascere la obiezione (altrimenti legittima) del governo dello Stato
italiano alla rivendicazione della “sovranità del Popolo sardo”, in
quanto orienta questa sovranità non contro ma in asse e in sinergia con
la sovranità del Popolo italiano, riconosciuta e consacrata solennemente
dalla nostra Costituzione; uscita tra l’altro, non dimentichiamolo
straordinariamente rafforzata dall’esito del referendum costituzionale
ultimo.
Ma che cosa, allora, è necessario fare per
poter realizzare l’obiettivo statutario unico delle “Autonomia e
sovranità del Popolo sardo”?
Sul piano del contenuto,
la risposta (evidente e, in definitiva, semplice) è: prima di tutto
trasferire il potere di comando dall’apparato di governo regionale
(Consiglio e Presidente/Governatore, che oggi lo detiene) al Popolo dei cittadini sardi, organizzati nel sistema ascendente delle Autonomie comunali e provinciali e regionale.
Non
è certamente questa la sede per entrare nei dettagli tecnici. Mi limito
a osservare che questo orientamento è già emerso a livello della
riforma costituzionale, specialmente nel corso della discussione sul
referendum ultimo, con la evocazione del modello del Senato federale
tedesco (il ‘Bundesrat’) dove, appunto, le decisioni sono prese
attraverso un iter nel quale i livelli ‘inferiori’ di autonomia
concorrono in maniera determinante.
Anche sul piano del
metodo, la risposta è evidente e, in definitiva, semplice: se non si
crede che l’apparato odierno del governo regionale abbia tendenze
suicide, per trasferire il potere dall’apparato di governo ai cittadini
occorre affidare la redazione della riforma non all’apparato di governo
ma ai cittadini.
Con la sottrazione della formazione della
Consulta alla elezione popolare si è commesso il primo ‘errore’ grave,
pregiudicando diciamo per metà le ‘chances’ di democrazia e di efficacia
della riforma.
Con la sottrazione della redazione della “legge
statutaria” sulla forma di governo regionale a quel che resta della
Consulta si commette il secondo errore grave, pregiudicando anche la
metà restante delle ‘chances’ della riforma.
Le speranze di
una riforma statutaria che finalmente, realmente dia “autonomia e
sovranità al Popolo sardo” dipendono, in maniera direttamente
proporzionale, dalla capacità di correggere questi due errori”.
C’è da augurarsi che i singoli cittadini prendano veramente coscienza della gravità del momento politico che la Sardegna attraversa. Fino a questo momento, nonostante da più parti ed ai vari livelli si affermi che tutto viene attuato in funzione del mantenimento della Democrazia, di fatto la vera Democrazia è ancora latitante e l’intervento del Prof. Lobrano ce ne da conferma.(dicembre 2006)