di Giorgio Campanini
Il Novecento è stato il tempo della radicale contestazione (soprattutto alla luce della drammatica vicenda dei totalitarismi della prima metà del secolo) della categoria di obbedienza, all’insegna di in motto diventato famoso: l’obbedienza non è più una virtù. Nel XXI secolo questo processo di radicale rimssa in discussione dei fondamenti stessi dell’etica si ripete, e si acuisce, su altri piani: in questo senso si può affermare che, agli occhi della gran parte dei nostri contemporanei, la fedeltà non è più una virtù (e, correlativamente, che non lo è più la castità, in verità assai poco praticata in tutte le epoche della storia). È da questo approccio che occorre partire per comprendere in profondità le ragioni della rimessa in discussione, in termini nuovi rispetto al passato, non tanto della famiglia in sé e per sé (essa è ancora, in Occidente, una struttura relativamente robusta e stabile) quanto della famiglia fondata sul matrimonio, e su un impegno di reciproca fedeltà destinato a prolungarsi tendenzialmente per tutto il corso della vita. È dunque la crisi della fedeltà che mette in discussione non un qualsiasi sitema di relazione tra i sessi (nonché fra genitori e figli) ma il tradizionale legame fra amore-sessualità-matrimonio; “tradizionale”, se si vuole, più a livello teorico che sul piano pratico, e talora impietosamente smentito dalla realtà della vita, ma considerato pur sempre un punto di riferimento, se non addirittura un ideale da raggiungere, anche da parte di coloro che in passato non riuscivano a realizzare in pratica questo impegno di fedeltà.
Una Società in mutamento
Dietro questa difficile stagione della famiglia (e soprattutto del matrimonio) stanno i profondi mutamenti della società occidentale, e soprattutto tre fenomeni culturali. Il primo, e forse il più rilevante, è rappresentato dalla nuova “cultura della mobilità”, e conseguentemente del cambiamento. Nel corso della vita degli uomini e delle donne di oggi si susseguono i mutamenti di residenza, di lavoro, di interessi e di gusti, con scenari destinati a mutare in tempi estremamente rapidi e con “modelli” assoggettati ad una rapida usura. La grande scommessa del matrimonio (una scommessa che molti degli uomini di oggi ritengono perdente) è quella di rappresentare un punto fermo in un orizzonte in cui tutto muta, e rapidamente muta. Il secondo mutamento concerne il nuovo approccio alla sessualità. Il movimento del ‘68 aveva proclamato, nella linea di Reich e di Marcuse, la “rivoluzione sessuale” come primo e fondamentale momento della rivoluzione politica e sociale. Di questa poco o nulla è rimasto: all’inizio stava la palingenesi della società; alla fine rimangono l’”aborto libero” ed il preservativo. La sessualità sta sempre più vistosamente scadendo nella prassi dei più (anche se fortunatamente vi sono qualificate “minoranze silenziose” che hanno operato una lucida riscoperta del senso della sessualità in un contesto di amore e di gratuità) a bene di consumo, con un ripetersi di esperienze sentimentali ed erotiche che rappresentano una vera e propria “scuola di non-fedeltà” . Vi è, infine, il cambiamento legato al forte e rapido prolungamento delle speranze di vita. Una giovane coppia di oggi ha davanti a sé, mediamente, cinquant’anni di vita comune (mentre un tempo le “nozze d’oro” erano un fatto quasi eccezionale) e questo tempo appare drammaticamente sproporzionato sia rispetto alle trasformazioni della Società sia riguardo all’evoluzione dei sentimenti.
Il Matrimonio in discussione
Non stupisce altra misura che, in questo contesto, il senso stesso del matrimonio sia rimesso in discussione. Ciò che per millenni è stato quasi pacificamente acquisito (anche se non sempre coerentemente praticato) viene oggi apertamente contestato: per ora ancora da una minoranza, seppure chiassosa e fortemente sovra-rappresentata nei mezzi di comunicazione di massa, ma domani -per il fascino che sembrano esercitare Paesi che, a differenza dell’Italia, hanno conosciuto una profonda corrosione dell’istituto familiare- forse da una maggioranza. Occorre dunque ritrovare le radici della opzione per il matrimonio e il suo senso profondo, dal momento che il puro e semplice richiamo alla tradizione non appare sufficiente, soprattutto agli occhi delle nuove generazioni. Si pone qui la vera e centrale domanda che soggiace all’attuale rimessa in discussione del “tradizionale” modello di famiglia: perché (ancora) sposarsi? La chiave della risposta sta ancora una volta, in positivo come in negativo, nella categoria della fedeltà. Se la fedeltà “non è più una virtù”, se essa è ridotta a pura abitudine e concepita come un ostacolo alla libera e cretiva espansione della personalità e al libero gioco dei sentimenti, allora si impone con solare evidenza un altro tipo di scelta, quella delle relazioni precarie e promiscue e, al più, della convivenza più o meno prolungata. È questo il senso della sfida che la cultura contemporanea pone al matrimonio, chiamato a dimostrare esistenzialmente, e non soltanto astrattamente, la sua superiore qualità, in termini di auto-realizzazione delle persone, di servizio alla vita, di attiva partecipazione alle dinamiche della società. In questo senso si potrebbe affermare, un poco paradossalmente, che il vero attentato al matrimonio è rappresentato non da coloro che optano per altre forme di relazione ma da quanti, pur scegliendolo, non riescono a trasformarlo in reale prassi di vita e accettano il lento logoramento della relazione e dei sentimenti, fino alla malinconica ed amara conclusione della separazione o del divorzio. Migliorare e potenziare la qualità del matrimonio è la via maestra da percorrere da parte di coloro che in esso credono; né la comunità cristiana né, per la sua parte, la società civile dovrebbero mancare di investire robuste e tenaci energie in questo compito che è insieme di formazione e di gelosa custodia. Resta tuttavia, a favore del matrimonio, un elemento fondamentale che gioca a suo favore e che nessun’altra forma di relazione normalmente è in grado di esprimere in eguale misura: il fatto di essere una struttura di stabilità. Proprio per l’accelerato cambiamento cui l’attuale società occidentale è assoggettata, sempre più diffusa ed avvertita è l’esigenza di trovare un punto fermo, un “luogo” protetto e sicuro a partire dal quale affrontare le vicende della vita, uno spazio di intimità e dialogo faccia a faccia in una società che, proprio per il costante avvicendamento delle relazioni, tende a sostituire alla relazione diretta rapporti esteriori, formali, passeggeri (del resto la stessa indefinita estensione delle reti di rapporto, agevolata dai nuovi mezzi tecnologici, finisce per ostacolare il loro sviluppo in profondità). Non vi è alcuna coincidenza fra stabilità e conservazione (e tanto meno conservazione sociale). L’esperienza della storia rivela che le società più dinamiche sono state quelle che hanno saputo conciliare stabilità e cambiamento; quando, invece, il cambiamento non è stato accompagnato da una base di stabilità -come è avvenuto in alcune grandi stagioni rivoluzionarie, quali quella francese e sovietica- lo sfilacciamento dei rapporti sociali ha portato, per una pressoché inevitabile reazione di segno contrario, ad un riflusso conservatore, se non autoritario o dittatoriale. La dinamica sociale ha bisogno contemporaneamente della stabilità e dell’innovazione, e la famiglia è la struttura che la civiltà ha inventato per garantire insieme l’una e l’altra: l’alternanza fra le generazioni, e la permanente dialettica tra padri e figli, è sotto questo aspetto esemplare, in quanto proprio la stabilità della relazione prepara e garantisce quella maturità, e dunque quella capacità di scelta, che porta alla fine all’abbandono, soprattutto spirituale, della casa paterna e materna e alla ricerca di nuove ed autonome strade.
La questione delle convivenze
È in questo contesto che si pone la questione delle convivenze e della eventuale loro normazione giuridica. Non si tratta di un fenomeno nuovo (anche se è indubbio che negli ultimi decenni esso si sia accentuato), ma di una realtà assai antica e presente nella storia, anche perché mai la famiglia fondata sul matrimonio, in nessuna cultura, è stata l’unica forma di relazione fra i sessi. Per gli estremi rappresentati da una parte dai semplici, occasionali o prolungati, rapporti sessuali ed affettivi e dall’altra dalle unioni matrimoniali, le convivenze rappresentano una sorta di tertium genus, non assimilabile né ai primi né alle seconde. Esse rappresentano una sorta di contraddittorio nodo conflittuale (almeno in una società che ha legalizzato il divorzio e che prevede per esso tempi relativamente brevi): ricercano la stabilità ma non accettano il fondamentale fattore di stabilità che è la contrazione del matrimonio; rivendicano il “primato del privato” e la “continua libertà delle scelte”, ma nello stesso tempo aspirano a qualche forma di legalizzazione, e dunque di “pubblicità” del loro rapporto; affermano il primato dei sentimenti sull’istituzione, ma chiedono per sé una particolare forma di istituzione, appunto la regolazione giuridica delle convivenze. In sintesi, si può affermare che, alla base della spinta alla totale o parziale legalizzazione delle convivenze sta la strutturale ambiguità della categoria di “riconoscimento”: si vuole essere “riconosciuti” (attraverso una qualche forma di legalizzazione del rapporto) ma non si “riconosce” (perché si continuano a proporre le proprie scelte come scelte esclusivamente private). È interessante osservare al riguardo come la parallela espressione adottata dalla Costituzione repubblicana all’art. 29 (“La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”) solo apparentemente ipotizza un rapporto “unilaterale”, che sembra andare soltanto dalla società (soggetto del riconoscimento) alla famiglia (oggetto di esso). Intanto la famiglia è “riconosciuta” in quanto essa a sua volta “riconosca” la legittimità dell’intervento dello Stato, quale si esprime nell’assoggettamento all’insieme di norme che vanno sotto il nome di “diritto di famiglia” ed esprima pubblicamente, con la celebrazione del rito, tale sua disponibilità. Nel matrimonio, dunque, il riconoscimento è reciproco. Non così avviene nelle convivenze. Esse aspirano ad un riconoscimento -totale o parziale- ma riaffermano il carattere privato del loro rapporto, dal momento che non vogliono pubblicamente esprimerlo e manifestarlo. Sono, in altre parole, “coppie di fatto” che aspirano a diventare “coppie di diritto” senza tuttavia cessare di rimanere quello che sono. È possibile che -per la duttilità che ogni ordinamento giuridico deve avere per dare in qualche modo un senso anche ad espressioni di per sé contraddittorie della variegata dinamica di una società- anche alle convivenze sia data una qualche legittimazione giuridica, come del resto è avvenuto in non pochi Paesi dell’Occidente. Ma l’insanabile contraddizione alla quale si faceva prima riferimento impedisce che si determini una equiparazione, di diritto od anche soltanto di fatto, tra due forme di relazione che restano strutturalmente diverse e che pertanto non possono essere riconosciute allo stesso modo.
Al di là della varietà dei modelli
Si è soliti affermare che, data la polimorfa realtà sociale di oggi, non di “famiglia” si dovrebbe parlare, bensì di “famiglie” (ciò che indirettamente pretenderebbe avallare anche forme diversificate di “riconoscimento”). Alcune indagini statistiche giungono a censire una dozzina di diverse forme di “famiglia” (da quelle cosiddette “unipersonali” a quelle “residuali”, ad esempio di una vedova e di un figlio convivente). Se si guarda tuttavia alla realtà concreta, si deve constatare che le forme familiari riconducibili a quella fondata sul matrimonio sono la grandissima maggioranza. Secondo gli ultimi dati disponibili, le convivenze rappresentavano circa il 5% del totale, contro il 95% di coppie fondate sul matrimonio. Non è questo, tuttavia, ciò che più conta, perché se anche, in ipotesi, il numero delle convivenze aumentasse a dismisura si tratterebbe pur sempre di altra cosa. Non è detto, tuttavia, che anche realtà fortemente minoritarie non possano meritare una qualche forma di parziale riconoscimento. È su questo che dovrà pronunziarsi il legislatore, pur senza dimenticare mai il fondamentale punto di riferimento rappresentato dal già richiamato art. 29 della Costituzione (e cioè, è bene sottolinearlo, non derivante da un’autorità religiosa o da una determinata posizione etica). Di due non marginali aspetti della questione il legislatore, tuttavia, si dovrà preoccupare, se vuole rimanere fedele al suo compito di garante del bene comune. Il primo aspetto da considerare è quello dell’attenzione che il legislatore deve prestare alla protezione della stabilità (dato che, come si è osservato, la stabilità è anche la premessa necessaria per l’attitudine all’innovazione). Ora le convivenze registrano un elevato tasso di variabilità (tendenzialmente assai più elevato di quella delle coppie fondate sul matrimonio), legato al fatto che si tratta di rapporti contratti con un atteggiamento di ricerca dell’altro e di “sperimentazione” (una ricerca ed una sperimentazione che spesso si concludono con la constatazione di non essere in grado di fare una definitiva scelta di vita l’uno per l’altro). Un secondo aspetto -questo ancor più evidenziato dai dati statistici- è la minore propensione alla generatività, almeno in Paesi come l’Italia, delle coppie conviventi. Senza inseguire inaccettabili logiche natalistiche ad oltranza, non si può negare che un serio problema al quale l’Italia si trova di fronte è quello del troppo basso livello di natalità, preludio ad una progressiva estinzione del gruppo umano italiano e, forse, anche ad una perdita di complessive capacità creative ed innovative. Sarebbe irresponsabile, da questo punto di vista, favorire forme di relazione strutturalmente poco disponibili alla generatività proprio per il contesto di provvisorietà e di ricerca nel quale vengono poste. Ogni intervento legislativo in questo delicatissimo ambito non potrà dunque non tenere conto anche delle conseguenze sociali (soprattutto di lungo periodo) delle decisioni che verranno adottate.
Alla ricerca del fondamento
I “dintorni” della famiglia possono essere variamente esplorati, e la sociologia a più riprese si è ormai cimentata in questa impresa. Ma ciò che soprattutto importa -in una prospettiva che voglia cogliere non soltanto la struttura esteriore della famiglia ma soprattutto il suo senso ed il suo fondamento- è esplorarne le segrete radici. E qui, ancora una volta, ci si incontra necessariamente con la categoria di fedeltà. Quando essa cessa di “essere una virtù” diventa inevitabile la prevalenza, nella relazione tra uomo e donna, delle pulsioni istintuali, così come, nella relazione fra genitori e figli, degli atteggiamenti oppressivi e possessivi. Essere fedeli al coniuge ed ai figli significa un necessario collocarsi al di fuori di sé, per porsi a servizio dell’altro, della sua completezza e della sua realizzazione, con un atteggiamento che è di fedeltà non tanto a ciò che è strettamente legata alla speranza -umana e cristiana- che è appunto apertura al futuro e disponibilità a costruirlo nell’umile fatica di ogni giorno.
Giorgo Campanini – Docente di Storia delle Dottrine Politiche (Dialoghi, giugno 2007)